giovedì 22 gennaio 2009

La dignità della foresta

Il mio cane nero cercò un posto confortevole dove andare a morire. Era sotto l’abete grande, quello che a Natale non si addobbava perché troppo alto. Ora non c’è più. È stato tagliato. Si era seccato forse perché ammalato, forse solo perché stanco. Era nell’angolo, verso nord, lontano dalla casa, vicino ma separato dalla strada dalla siepe impolverata. Era proprio in un angolo tranquillo. Noi ci capitavamo di rado. Immagino che lì mio padre abbia acceso la sigaretta pensando, appena dopo la notizia, a come sarebbe stato essere padre. Un angolino raccolto insomma, in cima al pendio da cui si domina la casa, se ne intuisce la vita con un rumore di pentole o una tenda che si scosta o una luce che si accende o si spegne. Il tutto restando a distanza, guardando senza essere visti. Un ottimo posto dove andare a morire in effetti. Chissà se aveva fatto un sopralluogo immaginando a come sarebbe stato. Sicuramente era un posto che bazzicava, l’avevo beccato spesso a mangiare fili d’erba lassù. E poi da lì gli piaceva abbaiare ai passanti. Secondo me solo per dire – Ehi ciao, io abito qui. Più che per spaventare. Certo se poi passava un cane si scatenava, del tipo – Vedi di girare alla larga, questo è territorio occupato. Non ricordo che fosse malato, non che io sapessi almeno. Era tutto acciambellato con il muso tra le zampe posteriori e la coda sull’orecchio. Dormiva, senza respirare. Non ha dovuto chiedere il permesso di andare lì a morire e ci ha lasciato tristi ma sereni.

Credo che più o meno sarebbe andata così anche per il mio cane bianco se i miei genitori non avessero deciso di tentare. Ora sta bene, è allegra e riesce a fare anche dei discreti scatti su tre zampe. L’uso della quarta è opzionale. Ogni tanto si ricorda di averla, quando è a passeggio rilassata e allora sculetta come una vera maitress. Che buffa! Il risultato di 4 ore di operazione, per rimettere insieme un femore disintegrato dall’impatto con una macchina di cui non si sa nemmeno il colore. Il primo veterinario interpellato è stato pagato solo per la chiamata, quando è arrivato con la siringa letale. Ma lei ancora non si avvicinava. Rimaneva ai margini del selciato, immobile per ore, guardando fisso chi si specchiava nella sua rassegnazione. Mai un lamento. Mai una carezza elemosinata. Aveva capito che di lì a poco non ci sarebbe stata più, qualcun altro aveva scelto per lei. Troppi soldi, troppi fastidi. Poi il ripensamento. Faceva troppo male pensare che forse ci poteva essere una via e rimanere con il dubbio perché non si aveva il coraggio di verificare.

La droga ti spegne invece aveva scelto le belledinotte. L’abbiamo trovata lì in mezzo a fiori. La bocca aperta con i dentini aguzzi in bella mostra. Credo abbia sofferto. Soffriva da un pezzo. Aveva perso quasi tutto il pelo, sembrava uno di quei gattini modalioli che si fabbricano in Cina, tutti pelle e ossa, scarni, con gli occhi grandi grandi incastonati in quel triangolo di faccina. D’altronde la natura stessa non era stata generosa con lei, era nata con gli occhi inespressivi di un tossicomane appena fatto, da lì il nome La droga ti spegne che mia zia prese a prestito dalle pubblicità progresso che passavano in tv.

Sarebbe stato penoso pensare di andare a morire nel posto prescelto e trovare un ostacolo e poi ancora così in un altro posto e poi ancora, trascinandosi con le ultime forze rimaste e finire lì, dove capita quando non ce la si fa più.
Eppure a qualcuno è negato anche questo. Incredibile. Tocca affidarsi agli eroi assassini.

Nessun commento: