Come recita la guida. Eh si perché l’isola di pasqua è cilena ma appartiene alla polinesia per storia, abitanti e tradizioni…
Dista 4000 km da santiago del cile e altri 4000 da thaiti. È davvero nel mezzo dell’oceano. Dopo 5 ore di volo intravedo un pezzettino marrone in mezzo al blu che si fa sempre più grande e realizzo che dovremo atterrare proprio lì! In realtà l’atterraggio è sicuro, l’aereoporto è stato ampliato per un eventuale atterraggio dello shuttle. Appena scendo collana di fiori al collo, peccato che tira un vero fresco altrimenti la voglia di mettersi in costume prevarrebbe.
Hanga Roi è il capoluogo, paesello colorato, abituato ad accogliere i turisti che rappresentano il maggiore entroito dell’economia locale. Albergo di lusso, fiori e piante in ogni dove. In camera non riesco a chiudere il balcone allora chiedo indicazioni. Mi rispondono sorpresi che c’è un gancetto ma se lascio aperto non succede nulla, nell’isola non ruba nessuno.
Mi incammino sulla costa e intravedo il primo moai. Che roba! Me lo aspettavo più grande; poi nei miei 4 giorni di permanenza sull’isola scopro che ne esistono di tutte le grandezze, dai due metri fino ai ventuno. Il più grande però è rimasto nella roccia vulcanica, non sono riusciti a issarlo, emblema della melagomania dell’epoca, traslabile su quella odierna.
I moai sono monumenti funerari, commissionati dai capi dei clan che quando morivano venivano seppelliti ai loro piedi, nei pressi del clan per protezione dello stesso. Lo sguardo rivolto all’isola, verso l’orizzonte, così che da una parte all’altra della costa creavano una sfera di protezione su tutto il territorio. Guido la guida parla con passione. È cileno ma vive a Rapa Nui da 20 anni. È sposato e ha una figlia. Chissà se anche sua moglie è bella come tutti i nativi, le donne sembrano uscite da un quadro di Gauguin, gli uomini evocano una forza ancestrale, mantenuta viva dalle attività a cui si dedicano quotidianamente, pesca, allevamento di bestiame, agricoltura. Ci sono campi sterminati di guajava. Si dice che se la mangi nei campi torni nell’isola. Io l’ho fatto. Chissà…certo il posto mi ha conquistato. Se chiudo gli occhi riesco ad evocare le onde indomabili che si schiantano con fracasso sulle rocce, il blu dell’oceano, il nero delle pietre, il rosso della terra e i sorrisi della gente. Conosco i locali, facciamo finta di capirci, in realtà cerchiamo di indovinare quello che vogliamo dire, io non parlo spagnolo, loro non conoscono l’italiano, inglese manco a parlarne. Compro una marea di monili fatti con le conchiglie, scendo nelle cave dove la popolazione si nascondeva quando la società, ormai sfaldata, era vittime delle lotte clandestine che hanno portato anche all’antropofagia. Mangio la ceviche di tonno più buona che esista accompagnata da un tubero viola un po’ stopposo. Imparo a ballare il sui sui anche se rispetto alle dee locali sembro un tronchetto della felicità! È bello stare dall’altra parte del mondo, mi vengono le vertigini a pensare quanto sono lontana dalla mia vita quotidiana, respiro gli spruzzi delle onde e penso che in mente, a prescindere da dove mi trovo, ho sempre le persone che amo.
Jorana!
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